7 giugno 2011

Teatro Espace

via Mantova 38 Torino


A PORTE CHIUSE

di J.P. Sartre


INTERPRETI

Riccardo De Leo

Irene Forneris

Giovanni Mancaruso

Alessia Pratolongo


REGIA

Giovanni Mancaruso


DISEGNO LUCI

Claudio Meloni


SCENOGRAFIA

Giovanni Galuppi


MUSICHE ORIGINALI

Mauro Ronca


CONSULENZA DRAMMATURGICA

Piero Ferrero



(Recensione di Andrea Ghiberti)

L’enfer, ce sont les autres”, “L’inferno sono gli altri”.

Questa la frase con cui si chiude l’opera “A porte chiuse”. Frase che riassume la visione psicologica e filosofica della libertà per Jean-Paul Sartre. L’altro come l’ultima, l’unica barriera della nostra Libertà. Che è infinita. E quindi responsabilizzante. Responsabilità che può portare, e quasi necessariamente porta, angoscia. Responsabilità, in seno alla Libertà, di cui si sente un disperato bisogno in questa contemporaneità del Terzo Millennio, che sembra aver dimenticato questa liaison esistenziale fondamentale. Questo il messaggio del cosiddetto Esistenzialismo, la corrente filosofica forse più importante della Francia di metà novecento e oltre, che aveva nel premio Nobel per la letteratura (rifiutato, caso raro nella storia, dall’autore) Sartre il suo punto di riferimento principale.

Insomma, confrontarsi con un dramma teatrale come “A porte chiuse”, e in generale con l’Esistenzialismo, oggi, non è compito facile per nessun regista e per nessun interprete.

Dunque, è un arduo cimentarsi quello del giovane regista Giovanni Mancaruso.

La scenografia è scarna, ricorda a malapena un salotto borghese, luogo in cui Sartre decide di ambientare il suo inferno. Si capisce che si tratta di un salotto borghese soltanto dai riferimenti culturali ad una statua ed alle poltrone. Poco male, perché la relativa asetticità e la prevalenza del bianco donano alla scenografia un’atmosfera ancora più “spettrale”. I personaggi vengono introdotti da un valletto “infernale”, interpretato magistralmente da Riccardo de Leo, che ha delle movenze quasi robotiche, ed un sorriso fisso, falso, quasi incastonato su di una faccia non-umana, resa agghiacciantemente clownesca da due pomelli rossi di trucco eccessivo sulle guance. Il valletto introduce i personaggi all’interno della stanza, priva di finestre e specchi, facendo intendere che comunque, fuori da quella porta ci sono solo altre stanze, e così all’infinito.

I personaggi introdotti sono tre: Garcin, un disertore brasiliano, Estelle, una donna dell’alta società francese, e Inès, un’impiegata postale, anch’essa francese e lesbica.

Tutti i personaggi si aspettano di esser torturati, di subire sevizie fisiche, di esser portati al cospetto di un boia, ma apprendono con stupore che la loro pena sarà semplicemente quella di restare lì, assieme, per l’eternità. Al loro iniziale stupore, subentra una tremenda consapevolezza: ognuno sarà il boia dell’altro, e così per sempre, in una sorta di gioco di ruolo infinito. Allora Garcin propone come soluzione il silenzio. Ma il silenzio è subito rotto da Inès, la “coscienza critica” del trio, colei che non cerca mai di nascondere né la sua colpa, né il suo disgusto. Ed è il desiderio che rompe il silenzio, il desiderio di Inès di possedere Estelle. Rotto il silenzio, le Jeu de massacre può cominciare. Tutti i personaggi, tranne Inès, all’inizio nascondono le loro colpe, ciò che li tortura veramente, il motivo per cui si trovano lì, all’inferno. Garcin è un disertore, è stato fucilato perché tentava di fuggire in Messico per non battersi, pur nascondendosi dietro la scusa intellettuale di voler fondare là un giornale pacifista. La sua tortura è essere giudicato un vigliacco. Estelle è un’infanticida, morta di polmonite: ha ammazzato suo figlio, per di più avuto da un amante. Inès ha distrutto la vita della sua amante omosessuale, la quale si è suicidata col gas uccidendo anche lei.

Tutti i personaggi riescono ancora a vedere ciò che li riguarda della loro vita sulla terra. Tutte immagini che ribadiscono la loro colpa, e che pian piano spariscono. Ma la fine delle vicende terrene non è la fine del tormento, perché finché c’è anche solo un occhio dell’altro a giudicare, non ci sarà pace per i personaggi.

E’ questo il messaggio che passa con forza. Il giudizio dell’altro ci limita e ci tortura. Perché noi siamo solo le nostre azioni. Le nostre azioni ci definiscono durante la vita, e questa definizione avviene tramite l’occhio altrui, che così ci incatena, senza possibilità di fuga.

La recitazione è davvero di alto livello. Irene Forneris è davvero credibile nel ruolo della donna frivola dell’alta società francese dell’epoca. Giovanni Mancaruso, che oltre ad essere il regista è anche interprete, è molto abile nel districarsi nel mondo dell’ambiguo Garcin. Alessia Pratolongo è a mio avviso stupefacente nel Ruolo di Inès, praticamente perfetta in tutto, senza un calo di tensione o di voce che sia uno.

Unica pecca è che non sempre le voci di Garcin e di Estelle arrivavano fino all’ultima fila dell’auditorio, ma in un luogo come L’Espace è una macchia quasi irrilevante.

Ciò che è davvero importante è che lo spettacolo fila per un’ora e mezza senza un calo di tensione, di ritmo, senza un secondo di noia, tenendo lo spettatore davvero in una stato di reale e concentrata attivazione della coscienza.

E questo è merito di un’ottima regia e di un micidiale, in senso buono, ritmo recitativo, su di un testo davvero difficile, in cui il rischio di scivolare nella noia, o nell’incomprensione, è davvero alto.

Invece il messaggio sartriano passa chiaro e forte, e gli attori hanno mantenuto il corpo e la coscienza del pubblico protesi a riceverlo. Perché la commedia, dal palcoscenico, calato il sipario, torna sempre la nostra vita.



Andrea Ghiberti