19 dicembre 2010

Cafè Basaglia

Via Mantova, 37

M. UNA COSA NOSTRA

Recensione di Cecilia Allegra (domenica 19 dicembre)

Regia e drammaturgia Girolamo Lucania

con Elisa Ariano, Jacopo Crovella, Vincenzo de Federico, Mara Scagli

Luci Pietro Striano

Scena Giulia Cicerale

Il Cerchio di gesso


M. come morte. M. come maiale. M. come merda. M come mafia. Tutte cose che M., Maurizio Avola, si porta dentro. Il “bravo ragazzo” al servizio del boss catanese Santapaola, che durante gli anni ottanta terrorizzò la Sicilia, si racconta, e nel raccontarsi si confonde in un vortice di ricordi che mischiano allucinazione e realtà rendendo impossibile districarle. Cos'ha spinto un soldato semplice della mafia, avvezzo a eseguire gli ordini senza porsi nessun interrogativo, a costituirsi e collaborare con la giustizia? La paura di fare la stessa fine delle vittime della sua cosca o piuttosto, come raccontano i giornalisti Gugliotta e Pensavalli in Mi chiamo Maurizio, romanzo da cui è stato tratto lo spettacolo, uno stato confusionale nato da un parziale pentimento? Che tale vaneggiamento sia stato causa o conseguenza del ripensamento, resta comunque la cifra del racconto, ed è accentuato ulteriormente nella messinscena teatrale. Le confessioni di Avola sono nebulose, costellate da rimandi e analessi, le date non esistono, fatti persone e circostanze spuntano come immagini di sogno, che si animano nelle figure dei personaggi teatrali costringendo i quattro attori ad una danza fra ruoli diversi. Si passa dall’impersonare il padre di M. al rappresentare il boss supremo della cosca, e così dalla madre di M. a sua moglie al galoppino di Santapaola, finchè lo stesso Avola si trova sdoppiato fra il personaggio del pentito e il killer legato alla mafia da un fortissimo vincolo d'onore: niente potrebbe rendere meglio lo straniamento che il vero Avola provava nei confronti della sua vita, scissa fra la dedizione alla famiglia e una parvenza di rispettabilità da una parte, e la sequela di omicidi compiuti a sangue freddo dall'altra. Infatti l'inesattezza delle sue confessioni deriva dal fatto che Avola appartenesse ai ranghi bassi della mafia, fosse estraneo alle logiche interne all'organizzazione mafiosa e avesse contatti solo sporadici con il boss, la cui figura è resa con gran effetto scenico attraverso un personaggio morente, un vecchio libidinoso che spreca il suo ultimo fiato proprio per ordinare la morte di M. Così, preda di turbe psicologiche, carnefice trasformato in vittima, devotissimo marito e ansiosissimo padre, Avola finisce per starci simpatico, esattamente come lo fu al giudice che raccolse le sue deposizioni.

In scena i giudici sono tre, ma indossano i camici: secondo quella stessa logica di sdoppiamento dei personaggi, sono infatti anche pseudoscienziati impegnati ad analizzare con metodo preciso l’enigma nascosto nella testa di Avola, quello di una società corrotta, in cui le maglie dell'imprenditoria e dell'alta politica sono infestate dal morbo mafioso. Nelle parole della compagnia del Cerchio di gesso, anche la mafia oggi si sdoppia, fra chi si nasconde e si sporca le mani, e chi siede sulle poltrone del parlamento e si dichiara innocente. L'ultimo gesto di Avola è dettato proprio dalla sfiducia a cui la consapevolezza di tale situazione lo porta: se anche una verità nel suo delirio ci fosse, chi l'ascolterebbe? Ed è a questo punto che, mediante l'uso di immagini video proiettate sugli schermi bianchi che chiudono M. in una cella-laboratorio da cui può essere studiato, i volti dei giudici si trasformano in volti dei politici e questi in quelli di improbabili clown. La scenografia dello spettacolo gira proprio attorno a queste quattro mura trasparenti, perfettamente funzionali a sfigurare l'immagine di Santapaola, ad accentuare la chiusura di M. nella propria follia, a separare lo spazio della sua vita familiare da quello dell'attività mafiosa e, infine, anche a facilitare gli attori nel passare da un costume all'altro. La rassegna Schegge infatti, della quale M. costituisce l'ultima tappa, si inserisce nel progetto di portare il teatro fuori dai suoi luoghi consoni, per cercare un altro tipo di pubblico. Ed effettivamente il Cafè Basaglia ha rappresentato per la compagnia una sfida non facile: in uno spazio ridotto, senza quinte e senza un impianto luci adeguato, hanno dovuto ripensare completamente la dinamica spaziale dello spettacolo. Animals dei Pink Floyd e l'uso sperimentale delle luci -verde per il delirio, giallo intenso per le allucinazioni- completano la ricostruzione dell'atmosfera surreale in cui è immersa una comunità che ignora la collusione tra mafia, stragi e politica.

Considerando che si è assistito ad uno spettacolo che non ha avuto l’opportunità di mostrare la sua gran complessità scenica e che si tratta di un lavoro che “necessita ulteriore spazio, tempo e risorse”, il bilancio è positivo: la gran difficoltà di far svolgere agli attori tre o più ruoli a testa può far sì che talvolta i personaggi ne escano un po’ stereotipati o poco credibili, come Crovella che fa fatica a passare da una recitazione che sottolinea la mancanza di dubbi e l’obbedienza cieca di M. alla cosca a una in cui si prevede che scandagli in profondità i propri pensieri. La complessità della messinscena lo rende lungo, ma nel complesso bisogna render conto della difficile impresa di metter in piedi uno spettacolo basato su un’inchiesta, con pochi attori, e con l’obiettivo di responsabilizzare un pubblico dimentico. Un’impresa audace e proprio per questo meritoria.